Omessa diagnosi: sì al risarcimento del danno se accelera la morte
In tema di responsabilità medica, nel caso in cui risulti che per effetto dell’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale il paziente perda la possibilità di sopravvivere per settimane o mesi in più, rispetto al periodo temporale effettivamente vissuto, si determina l’esistenza di un danno risarcibile alla persona da riconoscere ai congiunti.
Corte di Cassazione, Sez. III, 27/06/2018, n. 16919
La fattispecie
Con atto di citazione notificato nel dicembre 1991 T.G., S.P., S.S. e S.M. convenivano in giudizio innanzi al Tribunale di Cagliari la U.S.L. n. (OMISSIS) e Tr.Fr. chiedendo il risarcimento del danno per la morte del congiunto S.G., al quale, recatosi in data (OMISSIS) presso il pronto soccorso dell’Ospedale (OMISSIS) per violenti dolori retrosternali, veniva diagnosticata dal dott. Tr. semplice nevralgia, con rinvio a casa. Il giorno seguente, dopo che nella mattinata a seguito di esame elettrocardiografico gli era stato diagnosticato infarto acuto con prescrizione di ricovero d’urgenza, veniva colpito da morte appena rientrato a casa. Il Tribunale adito accoglieva la domanda, condannando i convenuti in solido al pagamento della complessiva somma di Euro 1.876.038,47.
Avverso detta sentenza, il Tr. e la Gestione liquidatoria della USL proponevano distinti appelli che, previa riunione delle cause ed espletamento di CTU, venivano accolti dalla Corte d’appello di Cagliari, la quale, nonostante il riconoscimento dell’esistenza della negligenza e imperizia del sanitario per non avere disposto l’immediato ricovero del S. e tutti gli esami strumentali secondo l’arte medica del 1979, osservava che, sulla base delle considerazione del CTU, la prospettiva di vita del S., nella gravissima situazione anatomica e funzionale dell’organo cardiaco, in termini di altissima probabilità statistica non poteva ritenersi superiore a 12 mesi secondo l’ipotesi più favorevole, 3 mesi secondo quella meno favorevole; ciò anche ove la patologia in atto fosse stata immediatamente riconosciuta dal sanitario, e che alla luce degli accertamenti peritali vi era l’alta probabilità di un evento fatale intra-ricovero. Pertanto, il comportamento negligente e/o imperito del Tr. non poteva essere posto in rapporto causale con l’evento morte, non potendosi attribuire rilievo, sotto il profilo risarcitorio, ad eventuali differenze nella sopravvivenza quantificabili in periodi brevissimi.
T.G., S.P., S.S. e S.M. proponevano ricorso per cassazione.
La Suprema Corte
Secondo la Corte di Cassazione, integra l’esistenza di un danno risarcibile alla persona l’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, ove risulti che, per effetto dell’omissione, sia andata perduta dal paziente la chance di vivere alcune settimane od alcuni mesi in più, rispetto a quelli poi effettivamente vissuti (Cass. 18 settembre 2008, n. 23846). Non ricorre a questo proposito la novità della domanda, eccepita da entrambe le parti controricorrenti, con riferimento al danno da perdita di chance, il quale presuppone in effetti una specifica domanda e non può ritenersi incluso nella generica istanza di risarcimento di tutti i danni subiti (Cass. 29 novembre 2012, n. 21245). “La chance, in tale caso, rileva non come danno-conseguenza ai sensi dell’art. 1223 c.c., ma come danno-evento. Il punto di riferimento della causalità materiale è proprio l’evento perdita di chance in termini di perdita della possibilità di una vita più lunga da parte del paziente. Il nesso di causalità materiale fra la condotta colposa e l’evento va quindi posto in relazione non con riferimento all’evento morte sic et simpliciter, ma con riferimento alla perdita del detto limitato periodo di sopravvivenza. E’ rispetto a tale danno-evento che il giudice di merito deve valutare quali conseguenze pregiudizievoli siano derivate dall’avere privato il danneggiato dalla possibilità di sopravvivere sia pure per un periodo limitato di vita”.
Inoltre, come precisato da Cass. 19 marzo 2018, n. 6688, “è lo stesso uso dell’espressione chance, con riferimento alla perdita della possibilità di sopravvivenza per un periodo imitato, a non apparire pertinente perché il danno non attiene al mancato conseguimento di qualcosa che il soggetto non ha mai avuto e dunque ad una possibilità protesa verso il futuro, cui allude la chance, ma alla perdita di qualcosa che il soggetto già aveva e di cui avrebbe certamente fruito ove non fosse intervenuta l’imperizia del sanitario”.
La Suprema Corte ha, dunque, confermato quanto già precisato in data 9 marzo 2018 con sentenza n. 5641: “qualora l’evento di danno sia costituito non da una possibilità – sinonimo di incertezza del risultato sperato – ma dal (mancato) risultato stesso (nel caso di specie, la perdita anticipata della vita), non è lecito discorrere di chance perduta, bensì di altro e diverso evento di danno, senza che l’equivoco lessicale costituito, in tal caso, dalla sua ricostruzione in termini di “possibilità” possa indurre a conclusioni diverse”. Sulla base di tale criterio, “la condotta colpevole ha cagionato non la morte del paziente (che si sarebbe comunque verificata) bensì una significativa riduzione della durata della sua vita ed una peggiore qualità della stessa per tutta la sua minor durata. In tal caso il sanitario sarà chiamato a rispondere dell’evento di danno costituito dalla minor durata della vita e dalla sua peggior qualità, senza che tale danno integri una fattispecie di perdita di chance – senza, cioè, che l’equivoco lessicale costituito dal sintagma “possibilità di un vita più lunga e di qualità migliore” incida sulla qualificazione dell’evento, caratterizzato non dalla “possibilità di un risultato migliore”, bensì dalla certezza (o rilevante probabilità) di aver vissuto meno a lungo, patendo maggiori sofferenze fisiche e spirituali”.
Conclusione
Pertanto, la Corte di Cassazione ha stabilito il seguente principio di diritto: “determina l’esistenza di un danno risarcibile alla persona l’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, ove risulti che, per effetto dell’omissione, sia andata perduta dal paziente la possibilità di sopravvivenza per alcune settimane od alcuni mesi, o comunque per un periodo limitato, in più rispetto al periodo temporale effettivamente vissuto”.